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27/02/12

The Artist: il silenzio è d’oro Di Jacopo Martire



L’annunciato trionfo del film di Michel Hazanavicius durante la notte degli Oscar rappresenta uno di quei paradossi di cui Hollyood è fucina inesaribile. Un film in bianco e nero, per giunta muto, che trionfa nell’era digitale in cui il 3D sembra la necessaria frontiera dell’intrattenimento (Avatar) e gli effetti speciali una sorta di elemento da cui non solo non si può prescindere ma che sempre di più detta i tempi della trama, quasi divenendo il motore dell’azione (Inception)? Come ha potuto The Artist sbaragliare la concorrenza usando strutture, stilemi e una sintassi narrativa che sono vecchie di almeno 80 anni? Siamo davvero così schizofrenici da essere affascinati dalle più avanzate innovazioni tecnologiche per poi innamorarci di qualcosa che chiaramente appartiene ad un’altra epoca e ci riporta magicamente alla nostalga di un tempo che non tornerà? 

Ascrivere il successo di The Artist (che ricordiamo è non solo di critica, ma anche di pubblico) ad una semplice infatuazione con un passato (cinematograficamente) mitico, tuttavia sarebbe un errore di imperdonabile sperficialità in quanto si limiterebbe ad intendere questo film come un puro esercizio di stile. 

Ed invece, andando oltre la linearità narrativa (il divo ormai al tramonto che viene salvato dalla nuova stella che egli stesso contribui’ a lanciare, l’happy ending quasi necessario), ci si rende conto che The Artist ci ha fatto innamorare perchè è una grande storia d’amore, di amiciza, di fallimento e di trionfo, che non servono magie tecniche per inchiodare lo spettatore (anche se il film di Hazanavicius è innegabilmente un piccolo capolavoro tecnico), ma che la narrazione è una questione di contenuti , di cose che ci toccano nel profondo e con le quali possiamo relazionarci. E che non sempre servono parole per provare emozioni. A volte basta uno sguardo tra un uomo e una donna, il musetto di un cane o il travolgente  suono di un tip-tap.  

 Jacopo

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