L’annunciato trionfo del
film di Michel Hazanavicius durante la notte degli Oscar rappresenta uno di
quei paradossi di cui Hollyood è fucina inesaribile. Un film in bianco e nero,
per giunta muto, che trionfa nell’era digitale in cui il 3D sembra la
necessaria frontiera dell’intrattenimento (Avatar) e gli effetti speciali una
sorta di elemento da cui non solo non si può prescindere ma che sempre di più
detta i tempi della trama, quasi divenendo il motore dell’azione (Inception)?
Come ha potuto The Artist sbaragliare la concorrenza usando strutture, stilemi
e una sintassi narrativa che sono vecchie di almeno 80 anni? Siamo davvero
così schizofrenici da essere affascinati dalle più avanzate innovazioni
tecnologiche per poi innamorarci di qualcosa che chiaramente appartiene ad
un’altra epoca e ci riporta magicamente alla nostalga di un tempo che non
tornerà?
Ascrivere il successo di
The Artist (che ricordiamo è non solo di critica, ma anche di pubblico) ad una
semplice infatuazione con un passato (cinematograficamente) mitico, tuttavia
sarebbe un errore di imperdonabile sperficialità in quanto si limiterebbe ad
intendere questo film come un puro esercizio di stile.
Ed invece, andando oltre
la linearità narrativa (il divo ormai al tramonto che viene salvato dalla
nuova stella che egli stesso contribui’ a lanciare, l’happy ending quasi
necessario), ci si rende conto che The Artist ci ha fatto innamorare perchè è
una grande storia d’amore, di amiciza, di fallimento e di trionfo, che non
servono magie tecniche per inchiodare lo spettatore (anche se il film di Hazanavicius
è innegabilmente un piccolo capolavoro tecnico), ma che la narrazione è una
questione di contenuti , di cose che ci toccano nel profondo e con le quali
possiamo relazionarci. E che non sempre servono parole per provare emozioni. A
volte basta uno sguardo tra un uomo e una donna, il musetto di un cane o il
travolgente suono di un tip-tap.
Jacopo
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